mercoledì 26 novembre 2008

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"Dal best seller di Neil Gaiman, godetevi un po' di dietro le quinte, con qualche scena in stop motion (attenzione, NON è 3D computer generated, questo!) e con Neil Gaiman, Henry Selick (il regista) e altri che dicono la loro in un promo che annuncia l'arrivo nelle sale americane del lungometraggio in febbraio, preceduto da una rapida preview il mese prossimo, in occasione della Notte degli Oscar" Ci commenta Luca Boschi, esperto cartoonist

martedì 25 novembre 2008


il manifesto del 23 agosto 2008


Supereroi e supereroine, verso dove?

Di Lucia Vannucchi

Mogli frivole e svampite alla Blondie, supereroine siliconate dal corpo di clessidra come Supergirl o She-hulk, megere arcigne come Nonna Abelarda, ragazzine lacrimevoli dei manga giapponesi o pin-up da copertina come Vampirella. È ancora questo scontato campionario di eroine che il Fumetto del terzo millennio sa proporre ai lettori?
I fenomeni recenti dei personaggi per ragazzine e teen-agers come le streghette di W.i.t.c.h. o le fatine anoressiche di Winx Club non sembrano aver spostato di molto la prospettiva, facendo leva su look alla Barbie, vesti succinte e ammiccamenti palesi.
Dall’osservatorio privilegiato di Napoli Comicon – festival conclusosi lo scorso 27 aprile con un’affluenza di 27000 visitatori – constatiamo che nel fumetto, come nel cinema e nella televisione, vengono riproposti stereotipi femminili che nei decenni scorsi, specie con il fumetto underground o satirico, quando in edicola furoreggiavano le cosiddette “riviste d’autore”, potevano considerarsi superati.
Cosa è accaduto, nel frattempo? Anche nel mondo dei balloons si respira aria di riflusso maschilista o, invece, ciò che i fumettisti contemporanei rappresentano è il semplice ossequio estetico a una tradizione figurativa consolidata, che propone, sotto sotto, contenuti più innovativi? Un esempio per tutti: l’affiatamento delle fatine Winxs insegna alle loro spettatrici come l’unione femminile faccia la forza.
Ne parliamo con Laura Scarpa, sceneggiatrice e disegnatrice sino dagli anni '70 (Il corriere dei Piccoli, il romanzo “Così è la vita”, strisce sulla rivista erotica Blue) e direttrice dal 2000 della rivista Scuola di fumetto.

D. Storicamente, il mondo del fumetto non vanta molte autrici. Come ti è venuto in mente di cimentarti in questo settore?

Ho debuttato nel ‘72, un periodo in cui le donne cominciavano ad avvicinarsi al fumetto. Contemporaneamente a me ci sono state anche altre autrici come Anna Brandoli, Cinzia Ghigliano. Ci eravamo inserite in questo settore sull’onda del movimento di rinnovamento culturale di quegli anni. Prima c’erano state comunque delle disegnatrici, ma erano casi isolati.
Sognavo di fare fumetti semplicemente perché affascinata dal Corto Maltese di Hugo Pratt. Fu un primo approccio, non su temi propriamente femminili. Oggi, invece, mi sento più influenzata dalla “veterana” Grazia Nidasio, che ho conosciuto personalmente in quel periodo attraverso mia sorella. Il contatto diretto con questa autrice mi ha fatto capire che avevo voglia di fare fumetti, ma che soprattutto desideravo scrivere storie. Dopo aver girato per Milano per varie case editrici, ho cominciato a lavorare per l’editore Ottaviano, che mi chiese di scegliere tra il fare un fumetto femminista o uno di avventura.
Se fossi stata un uomo mi avrebbe sicuramente proposto o fumetto politico o di avventura.

D. E adesso ti proporrebbero la stessa cosa?

Ora non si può parlare più solo in questi termini, i temi si sono molto diversificati, si va dalla biografia al fumetto quotidiano minimalista. Gli stili si sono mescolati, c'è una forte influenza dei manga e delle graphic novels. Quello dei manga, anche se qui in Europa riguarda un mercato più ristretto, è un fenomeno importante perché attira l’attenzione di ampie fasce di pubblico femminile e negli ultimi anni ha fatto emergere molte autrici. Quella delle graphic novels è invece una tendenza più generalizzata ed eterogenea.

D.Torniamo a Grazia Nidasio, storica firma del Corrierino. Come ti ha influenzato?

Grazia Nidasio realizzava sul Corriere dei Piccoli la serie Valentina Melaverde, che verrà ripubblicata quest'anno dalla Coniglio Editore, proprio con la mia cura. Era un fumetto pensato per ragazzine che però possedeva anche un grande attrattivo per i lettori maschi, perché le veniva affiancato un fratello e perché era sexy. Un personaggio molto ben costruito.


D. Ti sembra che nel fumetto vengano riproposti anche oggi dei modelli troppo tradizionali ?

Sì. Anche Jiulia per esempio - criminologa con le sembianze di Catherine Hepburn pubblicata dalla scuderia di Sergio Bonelli - pur rappresentando una donna moderna e autonoma, scade nello stereotipo. Si tratta di un fumetto popolare e come tale riflette le contraddizioni della mentalità corrente, riproduce i cliché che esistono nella vita. C’è da dire anche che è più difficile per un uomo dare vita a un personaggio femminile, come per una donna un personaggio maschile.
Se invece parliamo di fumetto autoriale, vediamo che i personaggi sono più vicini alla realtà, meno costruiti secondo un modello predefinito. Per esempio, le eroine dei manga sono personaggi molto forti. Accade anche che si trasformino e cambino sesso.
La stereotipizzazione vale comunque anche per gli eroi maschili, che non sono fuori dalla retorica e da prototipi standard.Tuttavia, trovo che nella lettereratura e nel cinema i clichè siano ancora più pesanti: il buon Pennac, che fa della letteratura diversa, rappresenta certamente donne strane, fantastiche, sexy, ma che alla fine sono solo delle “fattrici”, delle partorienti.
In sostanza, i modelli femminili tradizionali si trovano molto di più negli altri ambiti creativi che nel fumetto.

D. Non ti sembra che comunque la rappresentazione fisica delle eroine sia sempre stereotipata?

Nel fumetto popolare per ragazzine, sì, ma la cosa non mi stupisce. Basta guardare la televisione, i giornali, la pubblicità, il cinema. Mentre, torno a dire, nel fumetto d'autore rivolto a un pubblico più ristretto, trovo che non lo sia.

D. Ora che ci sono autrici emergenti e anche più lettrici che in passato, consideri i personaggi femminili più vicini alla realtà, più credibili?

Nel fumetto c'è già un’ evoluzione, che è cominciata negli anni ’70. Per esempio, La strega, serie disegnata da Anna Brandoli, ma anche altre storie disegnate da uomini, hanno per protagonisti dei personaggi femminili realistici, presentati in tutte le loro sfaccettature.
Tutto dipende da come cresce e si trasforma la società. Se questa si evolve, si evolve anche il fumetto. Ultimamente, purtroppo, il fumetto popolare è sottomesso alle leggi di mercato, segue i gusti, non innova. C’è molto conservatorismo, coniugato alla riproposizione di valori semplici come l’amicizia, la tolleranza. Predomina il timore di non andare d’accordo con tutti i potenziali acquirenti, e non si prende posizione.
Il caso di Valentina Melaverde è esemplificativo di questa controtendenza attuale: diretto a lettori di 9/10 anni, che non potevano vivere direttamente il ’68, portava loro delle proposte e degli spunti nuovi, cogliendo i fremiti di quegli anni e ritrasmettendoli con un linguaggio adeguato.
Adesso non esiste un prodotto simile per ragazzi, altrettanto propositivo ed innovativo.

D. Hai realizzato fumetti erotici per Blue. Il tuo punto di vista sul fumetto erotico in cosa differisce dall’erotismo maschile dominante in altri fumetti?

La percezione dell’erotismo è veramente individuale. Però ci sono degli elementi comuni che mettono d’accordo più o meno tutti, che sono la base per l’erotismo. Nella pornografia invece c'è più diversificazione tra maschile e femminile perchè è più fisica, più legata ad un meccanismo di eccitazione: l'uomo è più visivo, la donna mira più al racconto e alla fantasia.
Nel mio caso particolare, io racconto storie esplicitamente sessuali, non molto erotiche. Mi piace raccontare il sesso con esperienze vissute, le mie storie sono quasi tutte vere, accadute a me o ad amici e riraccontate. Piccole storie che parlano di sentimenti, di stati d’animo, di solitudini, di gelosie, di scoperta di una sessualità diversa.
La maggior parte degli autori maschi racconta di più la sessualità, le situazioni fortemente erotiche. Solo alcuni esaltano la relazione, il sentire. Per tutti, autori ed autrici, la difficoltà sta nel trovare delle belle storie erotiche, che raccontino il sesso, lo introducano, lo facciano pensare, desiderare, all’interno di un racconto che dice anche dell’altro.
C’è stato un caso, Talk Dirty del tedesco Mathias Schultheiss, che è piaciuto al pubblico più diversificato. L’autore parla quasi esclusivamente di sesso. Nella sua ossessione sessuale però è profondissimo, riesce a muovere il lettore, a trovare un equilibrio tra parole, visualità e capacità di risvegliare l’immaginazione.

D. Tu a quale pubblico ti dirigi?

Non penso al pubblico, penso a quello che voglio raccontare. E probabilmente quello che scrivo arriva a chi ha la mia stessa sensibilità. Il pubblico di Blue va dai 30 ai 60 anni, è prevalentemente maschile, forse perché sono esplicita, un po’ maschile anch’io.

D. Il mondo del fumetto è quindi per la maggior parte maschile?

Sì, però non più in maniera così netta. Gli autori non fanno più un fumetto solo maschile. C’è un’apertura o, se si vuole, un’ambiguità.
Una piacevole ambiguità.

D. Segnali positivi quindi?

Si.




il manifesto del 04 Giugno 2008
«Documenta», quelle immagini vive sulla realtà
Anche quest'anno il festival spagnolo svela un respiro internazionale. Trovano spazio realtà extraeuropee e retrospettive dedicate a Faroki e al francese Philibert
di Lucia Vannucchi
Madrid

«Le formule della fiction ormai si sono esaurite» commenta Mercedes Alvarez, multipremiata documentarista spagnola e membro della giuria di Documenta Madrid: un festival dedicato esclusivamente a diffondere e potenziare il genere del documentario e che attualmente vanta di avere la più alta affluenza di pubblico tra tutti i festival della capitale. «Il cinema di genere sembra che non abbia più tanta risonanza e capacità di far presa su quella parte di pubblico aperta a nuovi modi di narrare, a una visione non formattata della realtà». È l'affermazione della fusione degli stili, dell'ibrido, quindi. Alla sua quinta edizione è divenuto non solo vetrina del miglior cinema documentario internazionale (quest'anno sono state proiettati 105 film di 38 nazionalità diverse nelle sezioni competitive) ma anche un punto d'incontro annuale tra i professionisti del settore, i creatori ed il pubblico. A questo proposito sono stati creati tre blocchi di attività: proiezioni nelle sale pubbliche e private rispettando i formati e le lingue originali, attività parallele (esposizioni, presentazioni, tavole rotonde, incontri) e attività di formazione (conferenze, lezioni magistrali, seminari..).Alla domanda se si stia assistendo all'auge del documentario in questo momento la Alvarez ci risponde: «Credo che sia eccessivo dirlo. Piuttosto parlerei della maggiore accessibilità al fare cinema data dall'avvento del digitale. Adesso chiunque con una camera ed un microfono può filmare uno spaccato di realtà. Questo ha fatto sì che esistano documentari da ogni parte del mondo e innumerevoli festivals come questo; finestre aperte sulle più diverse realtà».Piatto forte del festival è la sezione competitiva in cui hanno concorso lungometraggi, cortometraggi e reportages. Abbiamo visto - con enorme varietà di stili e linguaggi - alcune proposte più puramente estetiche e innovatrici, altre più propriamente calate nel tessuto sociale, culturale, artistico o ambientale relazionato al tema trattato. Di forte impatto sono state quelle dedicate a realtà extraeuropee, molte delle quali con carattere di denuncia, come 4 de Julio, la massacre de San Patricio degli argentini Juan Pablo Younge, Pablo Zubizarreta. Il film fa luce su un fatto di sangue avvenuto nel 1976: l'assassinio di tre sacerdoti e tre seminaristi della congregazione pallottina di Buenos Aires. Attraverso testimonianze dirette di quel periodo, si indaga sul movente di un crimine di cui, con il silenzio della Chiesa, si occultarono le prove che avrebbero posto sul banco degli imputati un unico accusato:il governo militare. O come Rough Cut della giovane regista iraniana, Firouzeh Khosrovani ci presenta un Iran che ancora si ostina a non cambiare: il divieto di esporre in vetrina abiti con manichini, perché attirerebbero «troppo» l'attenzione dei passanti, è di per sé un fatto sufficientemente significativo per misurare il grado di emancipazione di quella società; un tema ormai conosciuto, abbordato però in forma originale.O come infine To see if I'm smiling di Yarom Tamar, che ci offre la sconcertante testimonianza di sei donne israeliane, che parlano della loro vita nell'esercito e della loro esperienza nei territori occupati, del potere che fu loro conferito a soli 18 anni per controllare la popolazione palestinese. Un punto di vista femminile su una guerra interminabile e sui dilemmi morali che questa impone.Tra i film presentati nella sezione competitiva nazionale spagnola risultano particolarmente interessanti le produzioni indipendenti che ritrattano realtà marginali o legate al tema dell'immigrazione come il cortometraggio El sastre del barcellonese Oscar Perez Ramirez, dove il regista riporta, senza intervenire, la giornata di un sarto pachistano e del suo aiutante indiano, che lavora per lui illegalmente per un somma irrisoria di denaro. Il film è girato a Barcellona, nello spazio claustrofobico del negozio del protagonista. L'interazione dei due uomini, che spesso acquista toni di comicità, riesce a sdrammatizzare la realtà di solitudine ed isolamento che li accomuna. O come Harraga, di Eva Hernandez Manzano e Mario de la Torre Espinosa, che entrano invece in maniera diretta nel dramma dell'emigrazione clandestina mostrandoci la realtà dei bambini di strada di Tangeri: quelli che ancora vedono la fuga verso l'Europa come unica via d'uscita al proprio inferno quotidiano e quelli - pochi - che sono riusciti a reinserirsi.Una sezione a parte è stata dedicata alle produzioni contemporanee latinoamericane (Pantalla latinoamericana) - che indagano sulla memoria collettiva di paesi come Argentina, Brasile, Cile, Messico, Panama o Paraguay - ed a quelle arabe (Pantalla arabe) con contributi cinematografici provenienti da Marocco, Egitto, Libano, Siria e Palestina.Un ampio spazio è stato dato anche alle retrospettive: sull'opera ed il contributo critico del regista tedesco Harun Faroki, su una quasi sconosciuta produzione documentaria di Antonioni ed sull'ormai consacrato regista francese Nicolas Philibert.In coincidenza con il quarantesimo l'anniversario del '68 il festival ha dedicato anche la prima parte del ciclo Echando la vista atràs al cinema militante di quel periodo, con una serie di titoli classici legati ad autori quali Fernando Solanas, Chris Marker, Alain Resnais, Godard, Saul Landau, Agnes Varda, che ritrattano i movimenti sociali esplosi in quel periodo in Francia, Stati uniti, America Latina ed Europa dell'est,.La seconda parte è invece totalmente incentrata su quel fenomeno artistico e musicale (la cosiddetta movida) che segnò la vita sociale e culturale della Spagna postfranchista e che ebbe i suoi centri nevralgici a Madrid, Barcellona,Valenzia e Vigo.Documenta è divenuto quindi un appuntamento ineludibile per chi è interessato a questo genere ancora minoritario, ma che svolge ed ha svolto un ruolo fondamentale nel rinnovamento del linguaggio cinematografico, perché «la volontà di svelare le false apparenze della realtà, di mostrare la propria visione critica della storia, della politica, di fomentare uno sguardo nuovo sul mondo, è quella che muove il documentarista» sostiene la Alvarez e ribadisce Nicolas Philibert nella sua lezione tenuta in un gremito auditorio dell'Istituto francese.«Resistete», sottolinea bene Philibert, «cercate di liberarvi dalle norme della televisione. In questa società dell'intrattenimento, dello spettacolo generalizzato, non permettete che il documentario perda la sua vitalità politica, non rinunciate alla sua dimensione soggettiva».