mercoledì 26 novembre 2008

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"Dal best seller di Neil Gaiman, godetevi un po' di dietro le quinte, con qualche scena in stop motion (attenzione, NON è 3D computer generated, questo!) e con Neil Gaiman, Henry Selick (il regista) e altri che dicono la loro in un promo che annuncia l'arrivo nelle sale americane del lungometraggio in febbraio, preceduto da una rapida preview il mese prossimo, in occasione della Notte degli Oscar" Ci commenta Luca Boschi, esperto cartoonist

martedì 25 novembre 2008


il manifesto del 23 agosto 2008


Supereroi e supereroine, verso dove?

Di Lucia Vannucchi

Mogli frivole e svampite alla Blondie, supereroine siliconate dal corpo di clessidra come Supergirl o She-hulk, megere arcigne come Nonna Abelarda, ragazzine lacrimevoli dei manga giapponesi o pin-up da copertina come Vampirella. È ancora questo scontato campionario di eroine che il Fumetto del terzo millennio sa proporre ai lettori?
I fenomeni recenti dei personaggi per ragazzine e teen-agers come le streghette di W.i.t.c.h. o le fatine anoressiche di Winx Club non sembrano aver spostato di molto la prospettiva, facendo leva su look alla Barbie, vesti succinte e ammiccamenti palesi.
Dall’osservatorio privilegiato di Napoli Comicon – festival conclusosi lo scorso 27 aprile con un’affluenza di 27000 visitatori – constatiamo che nel fumetto, come nel cinema e nella televisione, vengono riproposti stereotipi femminili che nei decenni scorsi, specie con il fumetto underground o satirico, quando in edicola furoreggiavano le cosiddette “riviste d’autore”, potevano considerarsi superati.
Cosa è accaduto, nel frattempo? Anche nel mondo dei balloons si respira aria di riflusso maschilista o, invece, ciò che i fumettisti contemporanei rappresentano è il semplice ossequio estetico a una tradizione figurativa consolidata, che propone, sotto sotto, contenuti più innovativi? Un esempio per tutti: l’affiatamento delle fatine Winxs insegna alle loro spettatrici come l’unione femminile faccia la forza.
Ne parliamo con Laura Scarpa, sceneggiatrice e disegnatrice sino dagli anni '70 (Il corriere dei Piccoli, il romanzo “Così è la vita”, strisce sulla rivista erotica Blue) e direttrice dal 2000 della rivista Scuola di fumetto.

D. Storicamente, il mondo del fumetto non vanta molte autrici. Come ti è venuto in mente di cimentarti in questo settore?

Ho debuttato nel ‘72, un periodo in cui le donne cominciavano ad avvicinarsi al fumetto. Contemporaneamente a me ci sono state anche altre autrici come Anna Brandoli, Cinzia Ghigliano. Ci eravamo inserite in questo settore sull’onda del movimento di rinnovamento culturale di quegli anni. Prima c’erano state comunque delle disegnatrici, ma erano casi isolati.
Sognavo di fare fumetti semplicemente perché affascinata dal Corto Maltese di Hugo Pratt. Fu un primo approccio, non su temi propriamente femminili. Oggi, invece, mi sento più influenzata dalla “veterana” Grazia Nidasio, che ho conosciuto personalmente in quel periodo attraverso mia sorella. Il contatto diretto con questa autrice mi ha fatto capire che avevo voglia di fare fumetti, ma che soprattutto desideravo scrivere storie. Dopo aver girato per Milano per varie case editrici, ho cominciato a lavorare per l’editore Ottaviano, che mi chiese di scegliere tra il fare un fumetto femminista o uno di avventura.
Se fossi stata un uomo mi avrebbe sicuramente proposto o fumetto politico o di avventura.

D. E adesso ti proporrebbero la stessa cosa?

Ora non si può parlare più solo in questi termini, i temi si sono molto diversificati, si va dalla biografia al fumetto quotidiano minimalista. Gli stili si sono mescolati, c'è una forte influenza dei manga e delle graphic novels. Quello dei manga, anche se qui in Europa riguarda un mercato più ristretto, è un fenomeno importante perché attira l’attenzione di ampie fasce di pubblico femminile e negli ultimi anni ha fatto emergere molte autrici. Quella delle graphic novels è invece una tendenza più generalizzata ed eterogenea.

D.Torniamo a Grazia Nidasio, storica firma del Corrierino. Come ti ha influenzato?

Grazia Nidasio realizzava sul Corriere dei Piccoli la serie Valentina Melaverde, che verrà ripubblicata quest'anno dalla Coniglio Editore, proprio con la mia cura. Era un fumetto pensato per ragazzine che però possedeva anche un grande attrattivo per i lettori maschi, perché le veniva affiancato un fratello e perché era sexy. Un personaggio molto ben costruito.


D. Ti sembra che nel fumetto vengano riproposti anche oggi dei modelli troppo tradizionali ?

Sì. Anche Jiulia per esempio - criminologa con le sembianze di Catherine Hepburn pubblicata dalla scuderia di Sergio Bonelli - pur rappresentando una donna moderna e autonoma, scade nello stereotipo. Si tratta di un fumetto popolare e come tale riflette le contraddizioni della mentalità corrente, riproduce i cliché che esistono nella vita. C’è da dire anche che è più difficile per un uomo dare vita a un personaggio femminile, come per una donna un personaggio maschile.
Se invece parliamo di fumetto autoriale, vediamo che i personaggi sono più vicini alla realtà, meno costruiti secondo un modello predefinito. Per esempio, le eroine dei manga sono personaggi molto forti. Accade anche che si trasformino e cambino sesso.
La stereotipizzazione vale comunque anche per gli eroi maschili, che non sono fuori dalla retorica e da prototipi standard.Tuttavia, trovo che nella lettereratura e nel cinema i clichè siano ancora più pesanti: il buon Pennac, che fa della letteratura diversa, rappresenta certamente donne strane, fantastiche, sexy, ma che alla fine sono solo delle “fattrici”, delle partorienti.
In sostanza, i modelli femminili tradizionali si trovano molto di più negli altri ambiti creativi che nel fumetto.

D. Non ti sembra che comunque la rappresentazione fisica delle eroine sia sempre stereotipata?

Nel fumetto popolare per ragazzine, sì, ma la cosa non mi stupisce. Basta guardare la televisione, i giornali, la pubblicità, il cinema. Mentre, torno a dire, nel fumetto d'autore rivolto a un pubblico più ristretto, trovo che non lo sia.

D. Ora che ci sono autrici emergenti e anche più lettrici che in passato, consideri i personaggi femminili più vicini alla realtà, più credibili?

Nel fumetto c'è già un’ evoluzione, che è cominciata negli anni ’70. Per esempio, La strega, serie disegnata da Anna Brandoli, ma anche altre storie disegnate da uomini, hanno per protagonisti dei personaggi femminili realistici, presentati in tutte le loro sfaccettature.
Tutto dipende da come cresce e si trasforma la società. Se questa si evolve, si evolve anche il fumetto. Ultimamente, purtroppo, il fumetto popolare è sottomesso alle leggi di mercato, segue i gusti, non innova. C’è molto conservatorismo, coniugato alla riproposizione di valori semplici come l’amicizia, la tolleranza. Predomina il timore di non andare d’accordo con tutti i potenziali acquirenti, e non si prende posizione.
Il caso di Valentina Melaverde è esemplificativo di questa controtendenza attuale: diretto a lettori di 9/10 anni, che non potevano vivere direttamente il ’68, portava loro delle proposte e degli spunti nuovi, cogliendo i fremiti di quegli anni e ritrasmettendoli con un linguaggio adeguato.
Adesso non esiste un prodotto simile per ragazzi, altrettanto propositivo ed innovativo.

D. Hai realizzato fumetti erotici per Blue. Il tuo punto di vista sul fumetto erotico in cosa differisce dall’erotismo maschile dominante in altri fumetti?

La percezione dell’erotismo è veramente individuale. Però ci sono degli elementi comuni che mettono d’accordo più o meno tutti, che sono la base per l’erotismo. Nella pornografia invece c'è più diversificazione tra maschile e femminile perchè è più fisica, più legata ad un meccanismo di eccitazione: l'uomo è più visivo, la donna mira più al racconto e alla fantasia.
Nel mio caso particolare, io racconto storie esplicitamente sessuali, non molto erotiche. Mi piace raccontare il sesso con esperienze vissute, le mie storie sono quasi tutte vere, accadute a me o ad amici e riraccontate. Piccole storie che parlano di sentimenti, di stati d’animo, di solitudini, di gelosie, di scoperta di una sessualità diversa.
La maggior parte degli autori maschi racconta di più la sessualità, le situazioni fortemente erotiche. Solo alcuni esaltano la relazione, il sentire. Per tutti, autori ed autrici, la difficoltà sta nel trovare delle belle storie erotiche, che raccontino il sesso, lo introducano, lo facciano pensare, desiderare, all’interno di un racconto che dice anche dell’altro.
C’è stato un caso, Talk Dirty del tedesco Mathias Schultheiss, che è piaciuto al pubblico più diversificato. L’autore parla quasi esclusivamente di sesso. Nella sua ossessione sessuale però è profondissimo, riesce a muovere il lettore, a trovare un equilibrio tra parole, visualità e capacità di risvegliare l’immaginazione.

D. Tu a quale pubblico ti dirigi?

Non penso al pubblico, penso a quello che voglio raccontare. E probabilmente quello che scrivo arriva a chi ha la mia stessa sensibilità. Il pubblico di Blue va dai 30 ai 60 anni, è prevalentemente maschile, forse perché sono esplicita, un po’ maschile anch’io.

D. Il mondo del fumetto è quindi per la maggior parte maschile?

Sì, però non più in maniera così netta. Gli autori non fanno più un fumetto solo maschile. C’è un’apertura o, se si vuole, un’ambiguità.
Una piacevole ambiguità.

D. Segnali positivi quindi?

Si.




il manifesto del 04 Giugno 2008
«Documenta», quelle immagini vive sulla realtà
Anche quest'anno il festival spagnolo svela un respiro internazionale. Trovano spazio realtà extraeuropee e retrospettive dedicate a Faroki e al francese Philibert
di Lucia Vannucchi
Madrid

«Le formule della fiction ormai si sono esaurite» commenta Mercedes Alvarez, multipremiata documentarista spagnola e membro della giuria di Documenta Madrid: un festival dedicato esclusivamente a diffondere e potenziare il genere del documentario e che attualmente vanta di avere la più alta affluenza di pubblico tra tutti i festival della capitale. «Il cinema di genere sembra che non abbia più tanta risonanza e capacità di far presa su quella parte di pubblico aperta a nuovi modi di narrare, a una visione non formattata della realtà». È l'affermazione della fusione degli stili, dell'ibrido, quindi. Alla sua quinta edizione è divenuto non solo vetrina del miglior cinema documentario internazionale (quest'anno sono state proiettati 105 film di 38 nazionalità diverse nelle sezioni competitive) ma anche un punto d'incontro annuale tra i professionisti del settore, i creatori ed il pubblico. A questo proposito sono stati creati tre blocchi di attività: proiezioni nelle sale pubbliche e private rispettando i formati e le lingue originali, attività parallele (esposizioni, presentazioni, tavole rotonde, incontri) e attività di formazione (conferenze, lezioni magistrali, seminari..).Alla domanda se si stia assistendo all'auge del documentario in questo momento la Alvarez ci risponde: «Credo che sia eccessivo dirlo. Piuttosto parlerei della maggiore accessibilità al fare cinema data dall'avvento del digitale. Adesso chiunque con una camera ed un microfono può filmare uno spaccato di realtà. Questo ha fatto sì che esistano documentari da ogni parte del mondo e innumerevoli festivals come questo; finestre aperte sulle più diverse realtà».Piatto forte del festival è la sezione competitiva in cui hanno concorso lungometraggi, cortometraggi e reportages. Abbiamo visto - con enorme varietà di stili e linguaggi - alcune proposte più puramente estetiche e innovatrici, altre più propriamente calate nel tessuto sociale, culturale, artistico o ambientale relazionato al tema trattato. Di forte impatto sono state quelle dedicate a realtà extraeuropee, molte delle quali con carattere di denuncia, come 4 de Julio, la massacre de San Patricio degli argentini Juan Pablo Younge, Pablo Zubizarreta. Il film fa luce su un fatto di sangue avvenuto nel 1976: l'assassinio di tre sacerdoti e tre seminaristi della congregazione pallottina di Buenos Aires. Attraverso testimonianze dirette di quel periodo, si indaga sul movente di un crimine di cui, con il silenzio della Chiesa, si occultarono le prove che avrebbero posto sul banco degli imputati un unico accusato:il governo militare. O come Rough Cut della giovane regista iraniana, Firouzeh Khosrovani ci presenta un Iran che ancora si ostina a non cambiare: il divieto di esporre in vetrina abiti con manichini, perché attirerebbero «troppo» l'attenzione dei passanti, è di per sé un fatto sufficientemente significativo per misurare il grado di emancipazione di quella società; un tema ormai conosciuto, abbordato però in forma originale.O come infine To see if I'm smiling di Yarom Tamar, che ci offre la sconcertante testimonianza di sei donne israeliane, che parlano della loro vita nell'esercito e della loro esperienza nei territori occupati, del potere che fu loro conferito a soli 18 anni per controllare la popolazione palestinese. Un punto di vista femminile su una guerra interminabile e sui dilemmi morali che questa impone.Tra i film presentati nella sezione competitiva nazionale spagnola risultano particolarmente interessanti le produzioni indipendenti che ritrattano realtà marginali o legate al tema dell'immigrazione come il cortometraggio El sastre del barcellonese Oscar Perez Ramirez, dove il regista riporta, senza intervenire, la giornata di un sarto pachistano e del suo aiutante indiano, che lavora per lui illegalmente per un somma irrisoria di denaro. Il film è girato a Barcellona, nello spazio claustrofobico del negozio del protagonista. L'interazione dei due uomini, che spesso acquista toni di comicità, riesce a sdrammatizzare la realtà di solitudine ed isolamento che li accomuna. O come Harraga, di Eva Hernandez Manzano e Mario de la Torre Espinosa, che entrano invece in maniera diretta nel dramma dell'emigrazione clandestina mostrandoci la realtà dei bambini di strada di Tangeri: quelli che ancora vedono la fuga verso l'Europa come unica via d'uscita al proprio inferno quotidiano e quelli - pochi - che sono riusciti a reinserirsi.Una sezione a parte è stata dedicata alle produzioni contemporanee latinoamericane (Pantalla latinoamericana) - che indagano sulla memoria collettiva di paesi come Argentina, Brasile, Cile, Messico, Panama o Paraguay - ed a quelle arabe (Pantalla arabe) con contributi cinematografici provenienti da Marocco, Egitto, Libano, Siria e Palestina.Un ampio spazio è stato dato anche alle retrospettive: sull'opera ed il contributo critico del regista tedesco Harun Faroki, su una quasi sconosciuta produzione documentaria di Antonioni ed sull'ormai consacrato regista francese Nicolas Philibert.In coincidenza con il quarantesimo l'anniversario del '68 il festival ha dedicato anche la prima parte del ciclo Echando la vista atràs al cinema militante di quel periodo, con una serie di titoli classici legati ad autori quali Fernando Solanas, Chris Marker, Alain Resnais, Godard, Saul Landau, Agnes Varda, che ritrattano i movimenti sociali esplosi in quel periodo in Francia, Stati uniti, America Latina ed Europa dell'est,.La seconda parte è invece totalmente incentrata su quel fenomeno artistico e musicale (la cosiddetta movida) che segnò la vita sociale e culturale della Spagna postfranchista e che ebbe i suoi centri nevralgici a Madrid, Barcellona,Valenzia e Vigo.Documenta è divenuto quindi un appuntamento ineludibile per chi è interessato a questo genere ancora minoritario, ma che svolge ed ha svolto un ruolo fondamentale nel rinnovamento del linguaggio cinematografico, perché «la volontà di svelare le false apparenze della realtà, di mostrare la propria visione critica della storia, della politica, di fomentare uno sguardo nuovo sul mondo, è quella che muove il documentarista» sostiene la Alvarez e ribadisce Nicolas Philibert nella sua lezione tenuta in un gremito auditorio dell'Istituto francese.«Resistete», sottolinea bene Philibert, «cercate di liberarvi dalle norme della televisione. In questa società dell'intrattenimento, dello spettacolo generalizzato, non permettete che il documentario perda la sua vitalità politica, non rinunciate alla sua dimensione soggettiva».

il manifesto 11 aprile 2008


Marocco, quel passato coloniale che non passa

di Lucia Vannucchi

Madrid


La tensione di Madrid con Rabat, causata dall’ultima visita della famiglia Reale agli enclavi spagnoli nel Nord del Marocco, mette chiaramente in evidenza che le attuali relazioni fra Spagna e Marocco sono state e continuano ad essere problematiche. Ricostruire la memoria di eventi che hanno segnato la storia spagnola e continuano a estendere la loro ombra sul presente, è ciò che si propone il giovane regista Julio Sanchez Veiga con “El labirinto marroquì”, un documentario che si inserisce nel circuito del cinema non commerciale europeo.
Tema centrale di questo lungometraggio di produzione andalusa, è il colonialismo spagnolo in Marocco agli inizi del secolo XX e la posteriore partecipazione delle truppe marocchine nella Guerra Civile spagnola.
Con l’aiuto d’immagini d’archivio, il regista presenta in forma critica ed attenta la catastrofe causata dalla guerra coloniale con il Marocco (1909-1921), che provocò la morte di migliaia di soldati e divise la società spagnola di allora.
Il film conta con le testimonianze emotive di ex-legionari marocchini che riferiscono come l’Esercito d’Africa divenne nel 1936, in maniera spietata e cruenta, un deciso alleato della parte franchista contro gli spagnoli rimasti fedeli alle istituzioni repubblicane.
In evidenza viene posta l’assurdità e la crudeltà del fatto che le truppe marocchine divennero protagoniste di una guerra proprio dalla parte di coloro che erano stati prima i loro grandi nemici ed impiegarono le loro stesse atrocità e tecniche di “pulizia etnica” di cui erano state vittima in precedenza..
Nel film partecipano anche alcuni storici (un britannico, un nordamericano, una francese, cuattro spagnoli) e un antropologo catalano, che uniscono ed interpretano le testimonianze degli intervistati. Il loro punto di vista occidentale sul processo di appropriazione coloniale e le relazioni fra Spagna e Marocco, ci fa sentire la mancanza di un punto di vista più locale, che dia al tema una prospettiva meno parziale ed impedisca di cadere in un certo paternalismo di sinistra.
Forse é in questo che si trova la parte debole del documentario, che comunque è di un indiscutibile interesse storico-sociale.





Intervista con il regista



Che importanza ha per te il tema della memoria?

Il film tratta di un argomento di cui poco si parla: si é reso omaggio ai nostri caduti, ai sacerdoti che morirono nella Guerra Civile, ai Repubblicani. Però non si sono mai menzionati né i nostri bisnonni che furono costretti ad andare in Marocco e a partecipare in una guerra che fu la gestazione della Guerra Civile; né ai marocchini, assoluti “parias”, che vennero in Spagna a combattere per l’esercito franchista.
Il documentario si propone di recuperare la nostra e la loro memoria collettiva e di riscoprire quella che fu la loro storia.

Como sei arrivato a questo tema?

Avevamo girato una documentario sui prigionieri durante il Franchismo, dove veniva fuori chiaramente come anche i marocchini fossero vittime di quel conflitto. Mi resi conto che era limitativo parlare solo dei marocchini che parteciparono alla Guerra Civile, era necessario anche raccontare la storia del colonialismo spagnolo in Marocco. Andando avanti nelle ricerche ho visto che occorreva girare un documentario che abbracciasse un periodo di tempo più ampio, dall’inizio del colonialismo spagnolo fino alla Guerra Civile. E’ una storia “circolare”: poveri che vanno a uccidere altri poveri,. Prima gli spagnoli contro i marocchini, poi i marocchini contro la popolazione spagnola. Quest’ultimi assunsero un ruolo terribile, erano assassini. E questo non si tace nel documentario, si spiega con la logica della guerra, che non prevede né pietà né perdono. Era gente miserabile, che considerava la guerra come un lavoro, un mezzo di sussistenza, perché i pochi “fortunati” che erano nell’esercito potevano vivere bene.
Durante la guerra civile Franco cominciò a pagare tutti i marocchini che si arruolavano nell’esercito. Per molti fu l’unica opportunità per avere una vita migliore.

Credi che ci sia altro da dire sull’argomento?

Il tema del recupero della memoria è estremamente interessante e significativo.
E’ importante conoscere quello che è successo per evitare che si ripeta. Ed è necessario recuperare la memoria storica, soprattutto in un paese come la Spagna, che ha sempre sofferto di amnesia rispetto al suo recente passato..

Del materiale d’archivio presente, ci sono molti estratti del “Romancero Marroqui” (documentario del periodo franchista , ndr.)…

Sì, ho voluto inserire anche il “Romancero Marroqui” in quanto documento franchista relazionato col tema del film. C’è un contrasto enorme fra il linguaggio franchista utilizzato per presentare i soldati marocchini che vanno alla guerra “per mandato divino”e i testimoni reali che raccontano come furono ingannati dal regime.
In realtà furono loro le principali vittime e soprattutto gli unici che, una volta vinta la guerra, sperimentarono la sconfitta e furono abbandonati alla loro sorte.

Articoli

il manifesto del 04 Giugno 2008
«Documenta», quelle immagini vive sulla realtà
Anche quest'anno il festival spagnolo svela un respiro internazionale. Trovano spazio realtà extraeuropee e retrospettive dedicate a Faroki e al francese Philibert
Lucia Vannucchi
Madrid

«Le formule della fiction ormai si sono esaurite» commenta Mercedes Alvarez, multipremiata documentarista spagnola e membro della giuria di Documenta Madrid: un festival dedicato esclusivamente a diffondere e potenziare il genere del documentario e che attualmente vanta di avere la più alta affluenza di pubblico tra tutti i festival della capitale. «Il cinema di genere sembra che non abbia più tanta risonanza e capacità di far presa su quella parte di pubblico aperta a nuovi modi di narrare, a una visione non formattata della realtà». È l'affermazione della fusione degli stili, dell'ibrido, quindi. Alla sua quinta edizione è divenuto non solo vetrina del miglior cinema documentario internazionale (quest'anno sono state proiettati 105 film di 38 nazionalità diverse nelle sezioni competitive) ma anche un punto d'incontro annuale tra i professionisti del settore, i creatori ed il pubblico. A questo proposito sono stati creati tre blocchi di attività: proiezioni nelle sale pubbliche e private rispettando i formati e le lingue originali, attività parallele (esposizioni, presentazioni, tavole rotonde, incontri) e attività di formazione (conferenze, lezioni magistrali, seminari..).Alla domanda se si stia assistendo all'auge del documentario in questo momento la Alvarez ci risponde: «Credo che sia eccessivo dirlo. Piuttosto parlerei della maggiore accessibilità al fare cinema data dall'avvento del digitale. Adesso chiunque con una camera ed un microfono può filmare uno spaccato di realtà. Questo ha fatto sì che esistano documentari da ogni parte del mondo e innumerevoli festivals come questo; finestre aperte sulle più diverse realtà».Piatto forte del festival è la sezione competitiva in cui hanno concorso lungometraggi, cortometraggi e reportages. Abbiamo visto - con enorme varietà di stili e linguaggi - alcune proposte più puramente estetiche e innovatrici, altre più propriamente calate nel tessuto sociale, culturale, artistico o ambientale relazionato al tema trattato. Di forte impatto sono state quelle dedicate a realtà extraeuropee, molte delle quali con carattere di denuncia, come 4 de Julio, la massacre de San Patricio degli argentini Juan Pablo Younge, Pablo Zubizarreta. Il film fa luce su un fatto di sangue avvenuto nel 1976: l'assassinio di tre sacerdoti e tre seminaristi della congregazione pallottina di Buenos Aires. Attraverso testimonianze dirette di quel periodo, si indaga sul movente di un crimine di cui, con il silenzio della Chiesa, si occultarono le prove che avrebbero posto sul banco degli imputati un unico accusato:il governo militare. O come Rough Cut della giovane regista iraniana, Firouzeh Khosrovani ci presenta un Iran che ancora si ostina a non cambiare: il divieto di esporre in vetrina abiti con manichini, perché attirerebbero «troppo» l'attenzione dei passanti, è di per sé un fatto sufficientemente significativo per misurare il grado di emancipazione di quella società; un tema ormai conosciuto, abbordato però in forma originale.O come infine To see if I'm smiling di Yarom Tamar, che ci offre la sconcertante testimonianza di sei donne israeliane, che parlano della loro vita nell'esercito e della loro esperienza nei territori occupati, del potere che fu loro conferito a soli 18 anni per controllare la popolazione palestinese. Un punto di vista femminile su una guerra interminabile e sui dilemmi morali che questa impone.Tra i film presentati nella sezione competitiva nazionale spagnola risultano particolarmente interessanti le produzioni indipendenti che ritrattano realtà marginali o legate al tema dell'immigrazione come il cortometraggio El sastre del barcellonese Oscar Perez Ramirez, dove il regista riporta, senza intervenire, la giornata di un sarto pachistano e del suo aiutante indiano, che lavora per lui illegalmente per un somma irrisoria di denaro. Il film è girato a Barcellona, nello spazio claustrofobico del negozio del protagonista. L'interazione dei due uomini, che spesso acquista toni di comicità, riesce a sdrammatizzare la realtà di solitudine ed isolamento che li accomuna. O come Harraga, di Eva Hernandez Manzano e Mario de la Torre Espinosa, che entrano invece in maniera diretta nel dramma dell'emigrazione clandestina mostrandoci la realtà dei bambini di strada di Tangeri: quelli che ancora vedono la fuga verso l'Europa come unica via d'uscita al proprio inferno quotidiano e quelli - pochi - che sono riusciti a reinserirsi.Una sezione a parte è stata dedicata alle produzioni contemporanee latinoamericane (Pantalla latinoamericana) - che indagano sulla memoria collettiva di paesi come Argentina, Brasile, Cile, Messico, Panama o Paraguay - ed a quelle arabe (Pantalla arabe) con contributi cinematografici provenienti da Marocco, Egitto, Libano, Siria e Palestina.Un ampio spazio è stato dato anche alle retrospettive: sull'opera ed il contributo critico del regista tedesco Harun Faroki, su una quasi sconosciuta produzione documentaria di Antonioni ed sull'ormai consacrato regista francese Nicolas Philibert.In coincidenza con il quarantesimo l'anniversario del '68 il festival ha dedicato anche la prima parte del ciclo Echando la vista atràs al cinema militante di quel periodo, con una serie di titoli classici legati ad autori quali Fernando Solanas, Chris Marker, Alain Resnais, Godard, Saul Landau, Agnes Varda, che ritrattano i movimenti sociali esplosi in quel periodo in Francia, Stati uniti, America Latina ed Europa dell'est,.La seconda parte è invece totalmente incentrata su quel fenomeno artistico e musicale (la cosiddetta movida) che segnò la vita sociale e culturale della Spagna postfranchista e che ebbe i suoi centri nevralgici a Madrid, Barcellona,Valenzia e Vigo.Documenta è divenuto quindi un appuntamento ineludibile per chi è interessato a questo genere ancora minoritario, ma che svolge ed ha svolto un ruolo fondamentale nel rinnovamento del linguaggio cinematografico, perché «la volontà di svelare le false apparenze della realtà, di mostrare la propria visione critica della storia, della politica, di fomentare uno sguardo nuovo sul mondo, è quella che muove il documentarista» sostiene la Alvarez e ribadisce Nicolas Philibert nella sua lezione tenuta in un gremito auditorio dell'Istituto francese.«Resistete», sottolinea bene Philibert, «cercate di liberarvi dalle norme della televisione. In questa società dell'intrattenimento, dello spettacolo generalizzato, non permettete che il documentario perda la sua vitalità politica, non rinunciate alla sua dimensione soggettiva».


Diagonal n.73 marzo 2008
Experpento diciembre 2007


Voces del desierto
Por Lucia Vannucchi

En un panorama cinematográfico generalmente pobre en producciones femeninas surge de repente el proyecto “Tebraa, retrato de mujeres saharauis”, presentado en la última edición del Festival de Cine Europeo de Sevilla. Se trata de un documental en el que 22 mujeres andaluzas (entre realizadoras, montadoras, productoras, diseñadoras gráficas, distribuidoras y compositoras) han formado parte del equipo estable.



Es una película colectiva creada con la intención de dejar constancia de una situación injusta e inaceptable, de iluminar una zona de sombra del mundo y, sobre todo, de dar voz a las mujeres saharauis, aquellas que soportan el exilio y resisten en los territorios ocupados del Sahara occidental o en los campos de refugiados de Argelia
“Todas estábamos de acuerdo con la idea básica que nació desde la Asociación de Amig@s del Pueblo Saharaui: hacer una película sobre mujeres implicando a creadoras de aquí, con el objetivo de expresar la condena a la continua violación de derechos humanos, al retraso desesperante de la Comunidad Internacional frente a una situación tan catastrófica y, a la vez, crear un puente entre mujeres de diferentes culturas”, comenta Beatriz Mateos, una de las directoras. La película es un mosaico de 12 piezas cortas contadas con diferentes estilos y lenguajes. "Las bases para hacer este trabajo, completamente voluntario, ya estaban puestas a priori. Ha primado la voluntad de cada autora de exponer suparte en relación con la de las demás, resultando una suma de recortes de vidas representativas de la variada realidad saharaui..”comenta Eva Morales Soler, otra de las directoras.
Cada relato regalado por las distintas protagonistas es a la vez un acercamiento al drama sufrido por el pueblo saharaui y a lo cotidiano de ellas, a su universo personal, a sus aspiraciones, en un crescendo de tensión emotiva.
Con el título se hace referencia precisamente a esta doble lectura: “la Tebraa es el canto solitario de las mujeres del desierto; refleja sus sueños y su vida interior”, afirma Dacil Pérez de Guzmán - otra realizadora - con motivo del estreno de la película.
Uno de los momentos más impactantes del documental se encuentra en la parte rodada en los territorios de El Aaiun ocupado, donde las realizadoras fueron obstaculizadas por el control policial marroquí y terminaron en la cárcel por el simple hecho de haber hablado con saharauis.
“A la hora de rodar tuvimos muchísimas dificultades y nos vimos obligadas a ocultar la cámara, hacer individualmente todo el trabajo de producción, grabación de video y audio. Las mujeres que entrevistamos se expusieron también a un gran riesgo de represalia simplemente por transmitirnos su testimonio anónimo”, continua Dacil.
Desde Canarias, la isla que les ha dado asilo político, Fátima y Mamia Salek nos arrastran directamente al corazón del drama saharaui. En los pocos minutos que dura el fragmento, casi al final de la película, ellas relatan su escalofriante experiencia de 16 años pasados en una cárcel marroquí donde fueron victimas de torturas y testigos de la muerte de sus padres. Liberadas gracias a la presión internacional, ahora viven en paz pero sin poder olvidar su pasado.
Pese a las objetivas limitaciones técnicas del cortometraje, que, por su naturaleza, no permite profundizar en una temàtica de por sì tan compleja, los testimonios llegan de forma directa y eficaz, abren una ventana a un mundo ignorado por la mayorìa y logran mover la conciencia del espectador.


Artículos







Diagonal n.73 marzo 2008

La memoria incómoda
Por Lucia Vannucchi

En el marco de la cuarta edición del Festival de Cine Europeo de Sevilla se ha inaugurado este año una sesión especial dedicada al cine documental producido en Andalucía - Documentando desde Andalucía -, donde se han presentado obras que se alejan y caminan al margen de los circuitos comerciales. Entre ellas El Laberinto Marroquí del joven cineasta Julio Sánchez Veiga sobre el colonialismo español en Marruecos al comienzo del siglo XX y la posterior participación de tropas marroquíes en la Guerra Civil española.
El director se preocupa de reconstruir la memoria histórica de hechos que han marcado la historia de España y siguen extendiendo su sombra sobre las actuales y no poco problemáticas relaciones entre los dos países (la reciente tensión con Rabat desencadenada por la visita de los Reyes a los enclaves españoles en el Norte de Marruecos lo pone claramente en evidencia).
Con el auxilio de imágenes de archivo y a través de una mirada comprometida sobre el tema, el director reconstruye las catástrofes bélicas de la guerra colonial con Marruecos (1909-1921) que se cobraron la vida de miles de soldados españoles y dividieron la sociedad española de aquel entonces. El cuenta también con los emotivos testimonios de ex legionarios marroquíes que nos relatan como, en 1936, de forma despiadada y cruenta, el Ejército de África, se convertí en firme aliado del bando franquista en contra de los españoles que se habían mantenido leales a las instituciones republicanas.
El documental logra plenamente comprobar lo absurdo y cruel que es protagonizar – como en el caso de las tropas marroquíes - una guerra, uniéndose a los que antes habían sido sus grandes enemigos, empleando las mismas atrocidades y técnicas de limpieza sufridas anteriormente.
En la película participan también una historiadora francesa y un historiador español que hilan e interpretan los relatos de los entrevistados. Su punto vista occidental sobre el proceso de apropiación colonial y las relaciones entre España y Marruecos, nos hace echar en falta la presencia de un punto de vista árabe, que dé al tema una perspectiva más completa y nos impida caer en un cierto paternalismo pro marroquí. Quizás en esto se encuentre la parte débil del documental, que, sin embargo, posee un interés indiscutible.

Enlace: Entrevista con el director

¿Qué importancia tiene para ti el tema de la memoria?
La película trata de algo de lo que poco se habla: se hace homenaje a nuestros propios muertos, a los curas que murieron en la Guerra Civil, a la gente que fue leal a la República. Pero no se mencionan a nuestros bisabuelos que tuvieron que ir a Marruecos a una guerra que fue la gestación de la Guerra Civil; ni a los marroquíes, absolutos “paria”, que vinieron aquí a cumplir un papel para el ejército franquista.
El documental trata de dar un paso atrás en nuestra memoria colectiva y en la de ellos para recuperar lo que fue su historia.

¿Como llegaste a este tema?
Nosotros habíamos hecho una serie televisiva sobre los presos del franquismo, donde vimos que los marroquíes eran unas victimas más del conflicto. Me di cuenta que no se podía contar solo la historia de los marroquíes que vinieron a la Guerra Civil, había que contar también la historia del colonialismo español en Marruecos. Y a medida que fui investigando pensé que era necesario un documental que abarcara un periodo de tiempo más amplio: desde el principio del colonialismo español hasta la Guerra Civil española. Se trata de una historia redonda: Pobres que iban a matar a pobres. Primero los españoles contra a los marroquíes y luego los marroquíes contra la población española. Ellos cumplieron un papel horrible, eran asesinos y esto no se oculta en el documental, sino que se justifica con la lógica de la guerra, que no entiende de piedad ni perdón. Eran gente muy miserable, que consideraba la guerra como trabajo, medio de subsistencia, porque los pocos “afortunados” que estaban en el ejército podían vivir bien.
En la Guerra Civil Franco empezó a pagar a todos aquellos marroquíes que se enrolaban en el ejército y para muchos fue la única oportunidad de conseguir una vida mejor.
¿Crees que todavía queden más aspectos por considerar?
Sì. Y si se profundiza en el análisis histórico, se puede dar una mejor lectura del presente Es importante tener conciencia de lo que pasó, para evitar que vuelva a pasar. Recuperar la memoria, sobre todo en un país como España que siempre ha sido amnésico, es necesario
Del material de archivo presente, hay muchos extractos del Romancero Marroquí...
He querido insertar también el Romancero Marroquí en cuanto documento franquista relacionado con el tema de la película. Hay un contraste enorme entre el lenguaje franquista utilizado para presentar a los soldados marroquíes que van a la guerra ”por mandato divino” y los testimonios reales que cuentan como fueron engañados por el régimen. En realidad ellos fueron las principales victimas y sobretodo los únicos que una vez conseguida la victoria, ganada la guerra, solo tuvieron la derrota y fueron abandonados a su suerte.
















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domenica 23 novembre 2008

BIO english

Director of documentary film and video creations. Having obtained a bachelor's degree in History of German Culture she continues her education in Filmmaking specializing in documentaries at the Centro Madrileño de Imagen with prof. Pilar Garcia Elegido and in the EICTV of San Antonio de los Baños (Cuba) with prof. Belkis Vega, as well as attending courses and workshops with various audiovisual professionals in the IES Film Academy (Madrid). She has worked on television series and advertisements for various producers in Italy and Spain. She has made videos for independent labels and dance companies. Since 1998 she has worked on educational projects in public schools to introduce filmmaking to students.Since 2005 she has worked with an Italian production company (Blue Films). She is currently carrying out a project of co-production, as well as collaborating with independent press agencies WIP and magazines (Experpento, Diagonal, Il sole 24 ore /blog, Il Manifesto).

martedì 18 novembre 2008

BIO italiano

Regista e sceneggiatrice di documentari e videocreazioni.
Dopo aver conseguito la laurea in Storia della Cultura Tedesca si forma in Regia di Documentari presso il Centro Madrileño de Imagen con Pilar Garcìa Elegido e si specializza nella EICTV di S.Antonio de lo Baños (Cuba) con Belkis Vega.
Successivamente frequenta corsi e seminari di regia e sceneggiatura con numerosi professionisti del settore cinematografico nella IES di Puerta Bonita (Madrid)e di critica cinematografica Con Javier Ocaña (El Paìs).
Ha lavorato in serie televisive ed in pubblicità per alcune case di produzione spagnole. Ha realizzato videoclips per discografiche indipendenti.
Dal 1998 collabora come insegnante in progetti educativi che prevedono l’introduzione al linguaggio cinematografico per bambini ed adolescenti.
Dal 2004 collabora con la casa di produzione italiana (Blue Film) e Settegiorni con cui sta attualmente realizzando un progetto documentario e come giornalista freelance con l’agenzia di stampa indipendente Wip e alcune riviste (Experpento, Diagonal, Il sole 24 ore /blog, Il Manifesto)).

BIO español

Después de haber obtenido la licenciatura en Filología Alemana se forma en guión y realización de documentales en el Centro Madrileño de Imagen con Pilar García Elegido y se especializa en la EICTV de S.Antonio de los Baños (Cuba) con Belkis Vega.
Sucesivamente frecuenta cursos y seminarios de dirección y producción cinematográfica con distintos profesionales del sector audiovisual en la IES (Puerta Bonita) y de critica cinematogràfica con Javier Ocaña (El Paìs).
Ha trabajado en series de televisión y anuncios publicitarios para algunas productoras españolas e italianas. Ha realizado videoclips para discográficas independientes.
Desde 1998 colabora como profesora en centros públicos en proyectos educativos que contemplan la formación de cine para adolescentes.
Desde 2005 colabora con la productora italiana Blue Film en la realización de programas televisivos.
Desde 2007 colabora como redactora en la sección dedicada a las reseñas de cine para la agencia de prensa independiente WIP, las revistas Esperpento, Il Manifesto y Il sole 24 ore y es socia de CIMA (asociación española de mujeres de los medios audiovisuales).